Giovanni da Procida

 
 
 
 
Giovanni da Procida, il di cui cognome nel breve articolo francese è contraffatto in prochita, fu un cittadino nobile Salernitano molto celebre nel secolo XIII, ed appellavasi così, perché tra le varie terre, di cui godeva la signoria, distinguevasi principalmente l’Isola di Procida in vicinanza di Napoli.

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Alle diverse sue belle doti, ed alle molte sue cognizioni letterarie e politiche accoppiava una somma perizia nella medicina, scienza in quei tempi tenuta in tale pregio, che non si vergognavano di professarla i più distinti nobili, e di più cospicui arcivescovi ed altri prelati: costume ignorato da alcuni scrittori, i quali, adattando gli usi moderni agli antichi, hanno erroneamente creduto, che diverso dal medico fosse il famoso Giovanni da Procida nobile Salernitano.

Questi era sommamente affezionato alle case di Svevia, e quindi fu molto caro a Federico I imperatore e re di Napoli, non meno che al re Manfredi di lui successore, le di cui parti volle ostinatamente seguire, anche dopo la venuta di Carlo d’ Angiò. Però essendogli stati confiscati tutt’i beni, e non credendosi più sicuro in Italia, passò in Aragona a trovare la regina Costanza, unico germe della casa di Svevia, moglie del re Pietro, e fu da entrambi i suddetti monarchi accolto con tal distinzione, che, conosciuta in brieve la sua abilità e prudenza, lo fecero barone del regno di Valenza, e gli diedero le signorie di Luxen, di Benizano e di Palma. Quindi più che dallo spirito di vendetta e di ambizione, come lo hanno tacciato i Francesi, spinto dai sentimenti di grata riconoscenza a tante liberalità e beneficenze compartitegli dai medesimi sovrani, si accinse con tutto l’impegno a studiare e porre in opera ogni mezzo per far loro conseguire il possesso de’ due regni di Puglia e di Sicilia appartenenti per paterno retaggio alla regina Costanza.

A tal uopo il Procida tutte quelle rendite, che ricavava dalle sue baronie, cominciò a spenderle in mantenere accorte spie e fedeli emissarj nell’uno e nell’altro regno, dove aveva molti distinti amici, e teneva segreta corrispondenza con quelli, ne’ quali più confidava. Avvidesi però in progresso, che non era guari possibile il riuscire nel regno di Napoli, dove il re Carlo aveva fissata a sua residenza, e scorrendo sovente le provincie allettava co’ beneficj i suoi fidi, ed intimoriva col massimo rigore i malcontenti. Quindi rivolse tutte le sue mire alla Sicilia, ove trovò le cose assai più disposte, poiché i ministri e soldati francesi, esercitando ogni sorta di vessazioni, di libertinaggio e di arbitrarie violenze, si erano concitato un odio sommo presso quegl’isolani (Ved. XXVIII Carlo, dove si è fatta in compendio una pittura dello stato deplorabile, in cui si trovavano allor i Siciliani, e delle principali circostanze, che diedero motivo alla loro sollevazione, come pure Ved. IV Pietro).

Dopo avere l’accorto Giovanni di Procida nell’1280 scorsa quest’isola travestito da monaco francescano, per formare segretamente la sua trama, ritornò in Aragona a comunicare al re Pietro l’esito de’ suoi occulti maneggi; indi riflettendo, che le sole forze dello stesso re Pietro  e della Sicilia troppo difficilmente potrebbero bastare a tale impresa, divisò di procurar loro anche degli ajuti stranieri.

Perciò nello stesso mentito abito di monaco recossi a Costantinopoli a trattare con Michele Paleologo, e ne ottenne non solamente copiosi sussidj di denaro, ma altresì lettere dirette al re d’ Aragona, a cui il greco imperatore prometteva tutta la più efficace assistenza.

Di là ei venne a Roma, per impegnare il papa Niccolò III a favorire una tale intrapresa; ma la morte di questo pontefice seguita nel 1281, e l’esaltazione di Martino IV, cioè del cardinale di Santa-Cecilia, di nazione francese e tutto propenso pel re Carlo, fecero cambiar faccia agli affari.

Nulladimeno il Procida non si sgomentò, né rinunziò guari al suo progetto, anzi lo sostenne e proseguì costantemente con tale astuzia, che gli scrittori non cessano di ammirare la destrezza e circospezione di quest’uomo, il quale per lo spazio di due anni e più seppe guidare e condurre ad effetto una sì strepitosa congiura maneggiata tra non poche nazioni ed in diversi luoghi tra di poco lontanissimi, e confidata a tante persone, senza che il re Carlo, il quale pure era sospettoso ed oculato, ed aveva spie ed aderenti da per tutto, potesse mai averne indizio alcuno.

Dopo adunque l‘inaspettata morte di Niccolò III il Procida, cambiando sovente vestiario per non essere conosciuto, fece un nuovo giro nella Sicilia, a fin di confermare i suoi aderenti nella presa risoluzione, diede un’altra scorsa a Costantinopoli, fin di tener saldo nel suo impegno l’imperator Paleologo, ed indi ritornato in Sicilia nulla tralasciò per mantener in fede ed incoraggiare i congiurati, non meno che per avvisare con segretissimi messi il re Pietro di quanto facevasi.

Finalmente quando intese, che l’armata del re di Aragona era già pronta per metter alla vela, Giovanni eseguì con tant’ ordine e con tanta diligenza la ribellione della Sicilia, che nel dì 30 marzo seconda festa di Pasqua (alcuni dicono nel dì 31 terza festa) del 1281, al suono della campana, che chiamava i Cristiani all’uffizio di vespro, i Palermitani, presero repentinamente le armi, si scagliarono sopra i Francesi, e quanti ne trovarono, tutti misero a fil di spada, con tal furore, che non perdonarono né a donne, né a teneri fanciulli, e neppure alle Siciliane gravide di Francesi.

Questa orribile strage tanto notoria sotto il nome di Vespro Siciliano, secondo il Giannone seguì nel giorno stesso in tutte le terre di Sicilia ov’erano i Francesi, e tosto fu gridato il nome del re Pietro d’Aragona e della regina Costanza.

Ma il Muratori, il quale suol essere diligente in ciò, che concerne le notizie storiche e la verificazione dell’epoche precise, e che viene anche in ciò seguito dai dotti Maurini, soggiunge:

<< Falso, è che in tutte le terre di Sicilia e ad un’ora stessa succedesse il macello de’ Francesi. Falso, che i Palermitani acclamassero tosto per loro re Pietro d’ Aragona. Alzarono bensì essi le bandiere della Chiesa Romana, acclamando per loro sovrano il papa. Uscì poscia in armi il popolo di Palermo, e trasse nella sua lega alcun altro luogo della Sicilia. Intanto Messina col più delle altre città dell’isola si tenne quieta per osservare, dove andava a terminare questo gran movimento. Ma non passò il mese di aprile, che le tante ragioni ed i segreti maneggi dei Palermitani indussero anche i Messinesi a ribellarsi colla morte ed espulsione di quanti Francesi si trovarono in quelle parti, e colla presa di tutte le fortezze>>.

Anche a favore de’ Messinesi spiccò sommamente la premura ed attività di Giovanni da Procida, il quale già trovavasi in Palermo nel giorno del famoso Vespro. Questi poco dopo, riflettendo al grande bisogno, che avevano di essere assistiti gli abitanti di Messina, imbarcatosi però in una galeotta con altri tre, che lo accompagnavano col titolo di Sindaci di tutta l‘isola, corse a trovare il re Pietro, che formava l’assedio di una città sulle coste dell’Africa, e lo indusse a lasciare quell’impresa e recarsi tosto colla sua armata a difendere la Sicilia dalle invasioni e dai tentativi del re Carlo.

Sempre impegnato e fedele si mantenne il Procida, anche colle armi alla mano, per sostenere in possesso della Sicilia non solo il predetto re Pietro, ma anche, dopo la morte del medesimo, l’un dopo l’altro, i di lui figli Giacomo e Federico, in favore dei quali ultimo recossi a Roma nel 1296, per indurre il papa Bonifacio VIII   a riconoscerlo ed approvare la di lui elezione seguita in Palermo li 15 gennajo dello stesso anno, malgrado la convenzione poco prima stipulatasi tra il preaccennato re Giacomo e Carlo II re di Napoli.

Ma i maneggi di Giovanni non ebbero alcun effetto, essendo egli mancato di vita in Roma stessa poco dopo il suo arrivo, riguardato comunemente come un uomo di gran valore e di finissimo ingegno.

Ai cennati uomini illustri e degni di memoria, avrei potuto aggiungerne altri, che pure si distinsero per bontà e dottrina, ma non avendo potuto raccogliere notizie esatte e precise per mancanza di tempo, ho creduto non farne motto, lasciando ad altri il farne più accurate investigazioni. Infatti il Cav: Giuseppe Zigarelli nell’orazione funebre di Pasquale De Bellis dice che maestri del sommo Carlo Rosini nel Seminario Urbano di Napoli furono Mons. De Rosa, Salvatore Aula, Gennaro Rodente Ignazio della Calce e Francesco Scotti de Lutiis, tutti grandi uomini. Io credo che il de Lutiis fosse stato di Procida, giacchè quì il cognome Scotti va distinto con l’agnome.

   

 

Tratto dal libro

“CENNI STORICI INTORNO ALLA CITTA ED ISOLA DI PROCIDA”


 

 

 
 

Conservatorio delle Orfane

 
 

   

 

Il Conservatorio delle orfane fu fondato ad iniziativa dell’Università di Procida, con deliberazione del 6 maggio 1651, ma non venne aperto che dopo la peste del 1656: però viveva vita miserabile e stentata fino a quando nel 1767 il R.do D. Giovanni Antonio de Iorio non gli cedette il palazzo e delle rendite.

    Fino al 20 giugno 1673 la detta opera fu amministrata da governatori scelti dal medesimo, ma nel 1680 fu stabilito che fossero quattro, cioè il Sindaco, uno della famiglia Iorio, il terzo il Governatore del Monte dei Poveri, ed il quarto il Governatore del Monte della Pietà.

    Sotto il governo Borbonico successe una commissione Comunale e nel 1862 la Congrega di Carità.

 

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   Questo istituto Pio ha lo scopo di raccogliere povere fanciulle del Comune, orfane di genitori, o almeno di Padre, non minori di anni sei, nè maggiori di anni 14, allo scopo di educarsi ed istruirsi, onde procacciarsi poscia col lavoro la sussistenza, dovendo uscire dal pio luogo all’età di 21 anni, e qualora passassero a matrimonio hanno il diritto ad un maritaggio di lire 76,50. Il loro numero non è fisso e varia secondo i mezzi di cui può disporre la detta pia opera, ora però è fissato a 25.

    Il Municipio concorre alla spesa del vitto con un sussidio annuale di lire tremila. I viveri vengono somministrati oggi per appalto e ciascuna ragazza pel solo vitto costa al Pio Luogo L. 0,3376 al giorno.

    La direzione è affidata alle Suore d’Ivrea, le quali le istruiscono nelle prime classi elementari, ed anche ai lavori ad ago, e ricamo, ed il ritratto, per metà cede a favore del Pio Luogo, e l’altra metà impiegata alla Cassa di risparmio ed intestata a ciascuna orfana.

    La seguente iscrizione del 1767 composta dal celebre signor Marchese Michele de Iorio, ci spiega il tempo ed il come surse e per opera di chi.

Ecco la iscrizione:

 

CAENOBIUM PUELLARUM VIRGINI PURITATI DEVOTUM

AB JOANNE ANTONIO DE IORIO PROCHYTANO

VIRO PIETATIS OFFICIIS ADMIRANDO, ANNO MDCLVI EVECTUM

QUO COLLABENTI PUDICITIAE OBVIAM INETUR

INSULAE COMMUNI SUFFRAGANTE

ANNUA CENTUM VIGINTI AUREORUM PRAESTATIONE

ADSTIPULANTE UTRAQUE POTESTATE

CAROLI AC FERDINANI IV. REGUM ARBITRATU,

ASSE SUPER QUALIBET FARINAE MENSURA

IMPOSITO LOCUPLETATUM

NUNC VETUSTATE PROPE IN PRAECEPS ABITURUM

QUATUOR VIRI HUIC LOCO REGENDO,

UNUS DE GENTE VEL FAMILIA FUNDATORIS,

ALTER SINDCUS UNIVERSITATIS,

RELIQUI EX PRIORIBUS MONTIS PAUPERUM

ET NAUTARUM CURATORIBUS

NON SINE EIUSDEM REGIS FERDINANDI

LIBERALITATE RESTITUERUNT, AMPLIARUNT,

ORNARUNT ANNO MDCCLXVII.

Un tempo questo Orfanotrofio era il Palazzo Baronale, dove si reggeva la corte, ed il luogo, dove presentemente si vede la Cappella, era la carcere o la casa di correzione, in cui si chiudevano i delinquenti, ma poi mercè l’opera dell’Architetto D. Egidio Gigli e la cura del Rev: D.Nicola de Iorio Governatore del Pio Luogo fu ridotto nella forma attuale.

 

 

Tratto dal libro

“CENNI STORICI INTORNO ALLA CITTA ED ISOLA DI PROCIDA”

di MICHELE PARASCANDOLA

 

 

 

 
 

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Ci sono varie compagnie come Caremar, Snav, Medmar e Gestour che effettuano collegamenti durante l'arco della giornata.
 
 
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